sabato 14 giugno 2014

Cosa sono i disturbi d’ansia e dell’umore

I Disturbi d’Ansia e dell’Umore sono certamente i disturbi psichici più comuni. Essi provocano gravi sofferenze che rischiano di compromettere il funzionamento familiare, sociale e lavorativo della persona colpita.

Sono disturbi che possono insorgere a qualsiasi età ed indipendentemente dal sesso o dallo status socio-economico di appartenenza.
Prendendo in considerazione i dati dei principali studi epidemiologici pubblicati sulla rivista Psychological Medicine nel 2012, i ricercatori hanno calcolato che, globalmente, la depressione nella sue varie forme interessa il 4,7% della popolazione, mentre l’ansia addirittura il 7,3%.


Disturbi d’ansia

L’ansia è un’esperienza emotiva universale che, di per sé, non è inadeguata poiché rappresenta una risposta a stimoli esterni più o meno intensi (una situazione nuova o inaspettata, esame, un colloquio di lavoro, una gara, un evento di vita significativo come ad esempio il matrimonio, ecc.). Nella giusta misura, l’ansia fornisce la spinta per essere più pronti ed efficienti ad affrontare la situazione. Essa rappresenta, infatti, un meccanismo protettivo per il soggetto, in quanto è finalizzata ad anticipare la percezione del pericolo prima ancora che si manifesti e a mettere in moto i meccanismi fisiologici che spingono all’esplorazione, per individuare il pericolo ed affrontarlo nella maniera più adeguata, oppure (quando necessario) all’evitamento e alla fuga.
Può succedere che allo stato d’allarme non corrisponde un pericolo reale da affrontare e risolvere. In questi casi l’ansia diviene una risposta sproporzionata o irrealistica che disturba la persone, invece di essere elemento di spinta all’adattamento ambientale.
Se gli episodi ansiosi sono fastidiosi, ma gestibili, occasionali e di durata limitata nel tempo non ci si deve preoccupare.
Al contrario, è importante consultare uno specialista e intraprendere un trattamento specificoquando nervosismo, agitazione, paure immotivate o sintomi quali fisici tachicardia e vertigini  diventano molto intensi e persistenti al punto da impedire di svolgere le proprie attività quotidiane o interferire con le relazioni familiari, sociali o lavorative.
Si possono individuare diverse tipologie di disturbo d’ansia. Quelle di più frequente riscontro nella popolazione sono:

Disturbi dell’umore

La tristezza, la noia e, più in generale, il “sentirsi giù” sono emozioni comuni che tutti sperimentano nel corso della propria esistenza di fronte ad eventi o situazioni di perdita e di mancanza: lutti, separazioni, perdite, ricordi dolorosi, ecc. Le oscillazioni dell’umore sono risposte fisiologiche e, di fronte a queste situazioni, non tutti diventano depressi: solitamente, la maggior parte delle persone riesce nel tempo ad affrontare queste situazioni e quegli eventi senza cadere nella depressione.
La depressione, intesa come disturbo clinico, presenta una caduta del tono dell’umore che è assolutamente sproporzionato rispetto a qualsiasi causa esterna che possa averlo provocato. A questa caduta si associano, inoltre, altre sensazioni: vuoto, appiattimento emotivo, a volte mancanza di sentimenti e, quasi sempre, perdita della capacità di provar piacere in quelle cose che in precedenza davano piacere (anedonia).
Dal punto di vista clinico, quindi, la depressione è una malattia che conduce la persona a vivere un netto cambiamento del suo umore e del suo modo di vedere se stesso e il mondo.
I disturbi dell’umore possono esprimersi in due sostanziali modalità, a seconda dei sintomi con cui si presentano: come Disturbi Depressivi e come Disturbi Bipolari
Disturbi Depressivi, a loro volta, si differenziano in:
  • Disturbo Depressivo Maggiore. E’ la forma più ricorrente di depressione e comprende un quadro clinico di una certa gravità, caratterizzato da sintomi che interferiscono significativamente con le funzioni fisiologiche (sonno, appetito), con la capacità lavorativa e con la capacità di provare piacere nelle cose che prima davano piacere. La depressione maggiore è un disturbo episodico: si presenta, cioè, con episodi che hanno un inizio, un’evoluzione e una fine. Nel corso della vita un persona può avere un solo episodio depressivo maggiore oppure una serie più o meno numerosa di episodi depressivi maggiori (in questi casi, si parla di Depressione Maggiore Ricorrente).
  • Disturbo Distimico. E’ una forma di depressione di minore gravità rispetto alla Depressione Maggiore, ma presente un andamento protratto (oltre due anni). I sintomi depressivi non sono invalidanti, anche se rendono il funzionamento della persona più faticoso e meno gratificante. Nel corso della Distimia possono manifestarsi anche episodi di Depressione Maggiore.

Disturbi Bipolari sono disturbi caratterizzati dal’alternanza di Episodi Depressivi Maggiori edEpisodi Maniacali (Disturbo Bipolare I) o Ipomaniacali (Disturbo Bipolare II). Depressione e Mania possono essere considerati due polarità della stessa malattia. La depressione è, infatti, caratterizzata da umore depresso, perdita di interessi e di piacere, rallentamento psicomotorio, pessimismo, indecisione, sentimenti di colpa, ecc. La mania è, invece, caratterizzata da sintomi di segno opposto, quali euforia, eccitamento psicomotorio, dispersione di interessi ed energie, ottimismo ingiustificato, ipervalutazione di sé e delle proprie capacità, ecc. La mania, con maggiore frequenza rispetto alla depressione, può comportare la perdita delle capacità di giudizio e disinibizioni del comportamento sociale al punto da provocare problemi gravi o imbarazzanti (ad esempio, scelte economico-finanziarie assurde, comportamenti sessuali bizzarri, ecc.).

martedì 20 maggio 2014

LA DISLESSIA, PROBLEMA PER I GENITORI, PER GLI INSEGNANTI, MA SOPRATTUTTO SOFFERENZA PER I BAMBINI

 Che cosa è la dislessia?La dislessia è un disturbo specifico dell’apprendimento e i  bambini che ne soffrono hanno un’ intelligenza nella norma o brillante, senza  problemi neuro-sensoriali e non vivono in ambienti  socio-culturali con problemi. Purtroppo è una situazione presente sin dalla nascita, ma si evidenzia solo all’inizio del percorso scolastico: dopo i primi due anni della scuola primaria, solitamente, le abilità della lettura e della scrittura sono acquisite…ma così non è per i bambini dislessici. Inoltre si presentano una serie di disturbi e problematiche che accompagnano questa situazione:
*Disturbi nell’organizzazione dello spazio
*Disturbi del linguaggio
*Disturbi nella coordinazione motoria
*Disturbi nell’esecuzione di procedure
*Disturbi nella memoria di lavoro
*Disturbi dell’attenzione e iperattività
*Disturbi del comportamento e della condotta
Dal sito dell’Associazione Italiana Dislessia si hanno molti elementi interessanti:
innanzitutto l’Associazione ci aiuta a capire come questa si può affrontare in una prima fase. Infatti quando qualcuno (genitore o insegnante) sospetta di trovarsi di fronte ad un bambino dislessico è importante che venga fatta, al più presto, una valutazione diagnostica. La diagnosi deve essere eseguita da specialisti esperti, mediante specifici test e permette di capire che cosa sta succedendo ed evitare gli errori più comuni, come colpevolizzare il bambino ("non impara perché non si impegna") e l'attribuire la causa a problemi psicologici, errori che determinano sofferenze e  frustrazioni. Il professionista redigerà  un referto scritto indicando il motivo dell'invio, i test utilizzati e la diagnosi conclusiva. Ottenuta la diagnosi si possono mettere in atto aiuti specifici, tecniche di riabilitazione e di compenso, nonché alcuni semplici provvedimenti della modifica della didattica a favore dei ragazzi dislessici e contenute nelle direttive Ministeriali, come ad esempio dare  di tempi più lunghi per lo svolgimento di compiti, l'uso della calcolatrice e/o del computer, anche durante gli esami.
Credo che  cosa fondamentale da ricordare, per tutti è che dislessici hanno un diverso modo di imparare ma comunque imparano.Spesso i genitori hanno difficoltà a riconoscere i segnali, perché questo è emotivamente molto difficile da affrontare: a volte attribuiscono le difficoltà alla scarsa volontà e scarso impegno (“II bambino è pigro e svogliato”); gli insegnanti possono mostrare disappunto e impazienza diventando più severi e la famiglia viene coinvolta e sente pesante il problema dei compiti a casa. Purtroppo a volte  vi sono classi che vivono il bambino dislessico come un vero e proprio problema, colui che ostacola il normale andamento didattico. Spesso la scuola di fronte a un bambino con problemi, adduce la causa a pigrizia collegando questo stato a motivi di carattere familiare con situazioni spesso assurde, irrealistiche e inappropriate rispetto alle reali dinamiche . Può capitare che alcuni insegnanti  assumano un atteggiamento negativo di fronte all’uso di materiali e strumenti compensativi specie l’uso del computer o altri strumenti tecnologici (rifiuto del PC in classe, o rifiuto di fare i compiti a casa con il PC, perché discriminerebbe i compagni) .Le dinamiche all’interno di una classe sono sempre molto complesse e al team di insegnanti non viene dato il giusto supporto e aiuto per affrontare anche questo .E quindi molte volte il bambino dislessico va incontro ad una richiesta cognitiva eccessiva .
Ma quale può essere una richiesta eccessiva per il bambino dislessico? Bisogna cercare di capirlo per potersi mettere nei suoi panni.  Ad esempio  leggere o scrivere una parola per un bambino con memoria a breve termine  e fare analisi fonemica è un compito per lui molto complicato, che appare invece facile per i compagni.
Fare un compito in cui sia necessario focalizzare l’attenzione su molti sotto-compiti , richiede proprio quei processi in cui lui non è sufficientemente automatizzato: lettura di parole lunghe, seguire una lezione alla lavagna, copiare alla lavagna, prendere appunti ; da qui possono crearsi confusione e disagio.
Tutto questo diventa  fattore di stress scolastico per il bambino dislessico.
 Proviamo a pensare come potrebbe essere per noi una mancanza ripetuta di soddisfazione:non finire in tempo, non avere la soddisfazione di far bene, di aver successo di fronte al compagno, se non di fronte alla classe intera, ricevere un giudizio negativo, la percezione del biasimo da parte dell’adulto. Da questo vissuto l’Immagine di sé   ne viene altamente compromessa e sono grandi I fattori di stress scolastico per il bambino dislessico.
 Sono quindi atteggiamenti da cercare di evitare il più possibile: sottoporre il bambino a molto stress tramite una didattica inappropriata; sottoporre il bambino a molti fallimenti in un contesto in cui dovrebbe riuscire a trovare gratificazione, ma che invece risulta umiliante, frustrante; dare giudizi negativi  specie sull’essere(non sufficiente, appena sufficiente, hai sbagliato, non fare il pigro, ti devi impegnare di più, non va per niente bene);non fare un’analisi attenta degli errori secondo le indicazioni diagnostiche fatte; sanzionare in termini di più compiti (rifai la scheda nell’intervallo); mostrare disinteresse per le sue difficoltà e le sue frustrazioni; non dargli l’ opportunità di mostrare i suoi ambiti di successo; utilizzare in classe modalità didattiche che favoriscono la competizione, paragoni, giudizio sociale relativo alle prestazioni scolastiche degli altri; avere un atteggiamento generale che valuta il bambino in termini di successo o meno a scuola o in una materia.
Perché dobbiamo avere tutte queste attenzioni? Perché altrimenti il bambino può andare incontro a degli stati emotivi molto forti, che portano a comportamenti di evitamento delle situazioni che gli fanno male e quindi della scuola: ansia, demoralizzazione, sintomi associati o secondari (mal di testa, mal di pancia), demotivazione, preoccupazione di far male o brutta figura, senso di incontrollabilità, solitudine, bassa autostima, aggressività, impulsività. Oggi, per fortuna la ricerca riconosce che i bambini con disturbo di apprendimento presentano come conseguenza problemi di tipo emotivo ( scarsa autostima, senso di colpa, problemi di socializzazione).
Il sentirsi fallimentare spinge il bambino ad auto-percepirsi come inappropriato e inadeguato, provocandogli un’enorme sofferenza che può manifestarsi dapprima come rabbia, aggressività , ritiro fino all’instaurarsi di veri e propri stati di ansia e depressione.
Percepirsi inadeguati è una sensazione straziante, che porta anche a reazioni di rabbia: fallimenti scolastici e frustrazione sarebbero la causa di comportamenti aggressivi, incrementati dai comportamenti inadeguati di genitori e insegnanti .La rabbia non sempre rivolta verso chi è responsabile direttamente ma più spesso verso la famiglia e in particolar modo verso la mamma. Inoltre bambini con DSA (questa è la sigla dei disturbi specifici dell’apprendimento, di cui la dislessia fa parte) soffrono di un rifiuto e di un isolamento sociale legato a uno o più fattori, come i problemi sul piano linguistico/comunicativo, le difficoltà nell’uso adeguato del linguaggio verbale, le scarse abilità sociali, la difficoltà a decodificare le informazioni offerte dagli altri, la possibile goffaggine, ma anche una difficoltà nell’interpretare il linguaggio corporeo ( che mi dà grandi indicazioni su cosa pensano gli altri).
 Tutto questo porta ad atteggiamento comunicativo passivo, uniformato al concetto di sé alla percezione che di loro hanno gli altri e all’’evitamento di certe esperienze o addirittura la fuga (quando non può farlo mette in atto altri comportamenti  a seconda dell’età come succhiarsi il pollice, mordersi le unghie,piangere, ecc..) Purtroppo questi bambini sono molto spesso convinti di essere poco intelligenti, cioè di possedere scarse capacità di riuscita in qualsiasi compito e quindi evitano ogni prestazione scolastica in quanto la loro motivazione è annullata.
Per tutti questi motivi capiamo che insegnanti e genitori giocano un ruolo determinante nel sostenere in un certo modo il bambino dislessico .Per riassumere prendiamo spunto nuovamente dall’Associazione Italiana Dislessia ci dà indicazioni su cosa possono fare i genitori:
- informarsi sul problema
- cercare una appropriata valutazione diagnostica
- discutere del problema con gli insegnanti
- aiutare il bambino nelle attività scolastiche (leggere ad alta voce)
- utilizzare strumenti alternativi alla pura lettura (cassette, cd, video, computer)
Cosa possono fare gli insegnanti:
- riconoscere e accogliere realmente la "diversità";
- parlare alla classe e non nascondere il problema;
- spiegare alla classe le diverse necessità dell'alunno dislessico e il perché del diverso trattamento;
- collaborare attivamente con i colleghi per garantire risposte coerenti al problema;
- comunicare con i genitori
Le cose da non fare:
- far leggere il bambino a voce alta
- ridicolizzarlo
- correggere tutti gli errori nei testi scritti
- dare liste di parole da imparare
- farlo copiare dalla lavagna
- farlo ricopiare il lavoro già svolto, perché scorretto o disordinato
- paragonarlo ad altri 

venerdì 16 maggio 2014

IL BAMBINO CONSUMISTA

Il bambino consumista! Detto così sembra che stiamo parlando di un essere che utilizza tutto il suo potere e la sua scelta decisionale per essere un consumista. In realtà non è così. Il bambino non può essere consumista se non è indotto ad esserlo, per vari motivi. Il primo è che, anche se ha una sua capacità decisionale fin dai primi giorni di vita, utilizza questa per scelte di sopravvivenza e non certo per scelte filosofiche o in questo senso, di vita. Inoltre perché, proprio per la sua sopravvivenza, sono fondamentali le figure di mamma e papà, tutto ciò che loro fanno e tutto ciò che loro indicano è giusto fare. Se mamma e papà, o chi per loro, non sono soddisfatti di me e del mio modo di essere, io rischio l’abbandono e per il bimbo abbandono equivale alla morte.
Ma parlando di consumismo non si può non parlare di “oggetti”; anche la psicologia ne parla, seppur in modo diverso. L’”oggetto” d’amore e di desiderio per il bambino è la propria madre e quindi il suo amore. Passata una prima fase in cui è giusto che mamma e bambino siano in simbiosi, il bambino deve imparare ad avere dei suoi spazi e dei suoi momenti. È questo il motivo di massima che fa dire a tanti pedagogisti di lasciare che il bambino a volte pianga anche un po’ da solo nella culla e nel lettino e inizi a capire di cosa ha bisogno, a gestire la frustrazione e ad auto-consolarsi  (magari gorgheggiando, canticchiando, coccolandosi…). Se noi interponiamo a tutte queste fasi  continuamente la presenza di un oggetto esterno, inanimato e onnipresente, facciamo in modo che il bambino non superi  queste fasi nel modo più naturale possibile. Ad esempio, l’ansia di esserci o non esserci della madre può cercare un oggetto consolatorio di cui il bambino non ha bisogno e sviluppare in lui, invece una “dipendenza dell’avere”. Crescendo imparerà che vale chi ha e non chi prova, gestisce, crea, esprime e rinuncia. Lo sviluppo dell’identità del sé non passa attraverso” l’oggetto mamma”, ma i suoi surrogati di plastica e altro. Da questo alla dipendenza il passo è breve. Non aver imparato a gestire la frustrazione provoca una confusione del Sé: non si sa bene più chi si è e di che cosa si ha realmente bisogno, e in particolar modo nei momenti in cui si passano naturalmente alcune crisi dovute all’età, ad esempio durante l’adolescenza o in età adulta, in momenti particolarmente stressanti e di transizione, si ricerca la propria identità attraverso il possesso di un oggetto, magari di moda, in modo da ricercare anche l’accettazione del gruppo, della società e quindi il suo riconoscimento.
La scienza psicologica guida i pubblicitari nella scelta dei colori, immagini e suoni per guidare le nostre scelte, ma ci aiuta anche a uscire da una situazione di dipendenza dal consumismo. La psicologia del ragionamento e della decisione è un tipo di psicologia che consente  di comprendere le strategie della decisione del consumatore nei suoi aspetti non logici, evidenziando le differenze rispetto ad un processo logico. Queste differenze rendono conto del come il consumatore possa difendere per esempio scelte di acquisto irragionevoli sul piano logico (cambiare automobile quando quella che ha funziona ancora bene); ci aiuta a comprendere i processi di autogiustificazione per legittimare scelte non sostenibili su un piano meramente pratico o di vantaggio economico.

Alla fine mi viene da concludere che un bambino di oggi potrà essere un consumatore più o meno responsabile a secondo il modo in cui  noi adulti sappiamo gestire o meno le nostre ansie, anche nei loro confronti.

venerdì 2 maggio 2014

Bambini e lettura: un’occasione per crescere insieme


Leggere con i bambini, leggere per i bambini o insegnare a leggere ai bambini? Non c’è una grande differenza: in ognuna di queste azioni passa la relazione. I progetti come “nati per leggere”, i laboratori esperienziali e educativi (per genitori e genitori e bambini) che in questi anni sono stati portati avanti hanno messo in luce proprio questo: attraverso la lettura passa non solo il sapere, ma anche la relazione. Innanzitutto la scelta delle letture fatta insieme ai bambini dice tanto di quello che siamo e quello che tramandiamo.
Attraverso le storie passano i nostri messaggi, i nostri valori, le nostre norme, ma anche le nostre paure. Passa quello in cui crediamo, che ci si possa salvare o meno da una situazione, che si possa fare o meno affidamento sugli altri, sulla propria dolcezza, furbizia o intelligenza per risolvere una situazione, che ci sia o meno una giustizia, una famiglia, un’amicizia, un lieto fine.
È fondamentale quindi scegliere e ragionare sulla nostra preferenza, ma anche avere delle indicazioni riguardo a questa.
È importantissimo iniziare a leggere con loro fin dalla prima infanzia e quindi leggere ad alta voce e, se è possibile, con l’aiuto del proprio Bambino Interiore, mimare storie e personaggi attraverso la voce e i gesti. Un bambino, quando gli viene letta una favola o mentre la legge lui stesso è nella favola e vive realmente le emozioni del personaggio.
Poi si inizia a leggere da soli, di solito in prima elementare. I bambini che hanno iniziato la primaria devono cominciare a esercitarsi con la lettura. Come aiutarli? E come aiutare anche i bambini più grandi che non hanno ancora acquisito bene la capacità di leggere ad alta voce?
Leggere ad alta voce è esperienza piacevole anche perché crea l’abitudine all’ascolto, aumenta i tempi di attenzione (che nei bambini sono di solito molto brevi) e sicuramente accresce il desiderio di imparare a leggere. Quindi quando leggete con i vostri bambini sarebbe il caso di riservare alla lettura un momento particolare della giornata: ad esempio prima del sonnellino o della nanna (momento migliore perché allieta anche il sonno) o comunque scegliendo dei momenti durante i quali siete entrambi un po’ più tranquilli.
Può capitare che il bambino si agiti o sia inquieto, in quel momento è importante non insistere e approfittate di altri momenti, come quelli di attesa, magari dal dottore, durante una fila, in un viaggio o durante un influenza (rende la malattia più affrontabile).
È importante poi il dove leggere: scegliete un luogo confortevole dove sedervi e dove recitate o cantate le filastrocche del suo libro preferito; sarebbe utile cercare di eliminare le altre fonti di distrazione: televisione, radio, stereo… Tenete in mano il libro in modo che il vostro bambino possa vedere le pagine e in modo che voi possiate indicargli le figure e spiegargliele. E poi fatelo partecipare con domande come: cosa pensi che succederà adesso?
E infine scegliete con lui: accompagnatelo in biblioteca e nelle librerie a lasciatevi andare all’entusiasmo dello scegliere un libro! Questo è il dono della relazione che ci dà la lettura con in nostri bambini.
Enrica Gagliardi (enrica.gagliardi1@gmail.com)



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lunedì 7 aprile 2014

TUMORE AL SENO, LA DONNA AFFRONTA….

Lo so, non è facile affrontare la malattia oncologica, l’intervento e le terapie che ne conseguono. La paura e l’angoscia di fronte alla notizia di avere il cancro sono reazioni naturali e non certo facili da gestire. L’intervento chirurgico modifica una parte del corpo visibile della donna, parte che per lei rappresenta tre grandi temi della vita: la femminilità, la maternità, la sessualità.
 Molte donne, inoltre, si preoccupano dell’immagine sociale, ossia del fatto che l’intervento, più o meno mutilante, possa influire negativamente su ciò che gli altri pensano di loro. Le emozioni più comuni sono ansia, depressione, paura del futuro: la malattia è uno dei modi in cui la vita ci “toglie il terreno sotto i piedi”. Sembra arrivi sempre nel momento sbagliato, interrompendo bruscamente progetti . Spazza via di colpo i progetti, la nostra agenda, cene con gli amici. Per un periodo, che può essere anche piuttosto lungo, sembra che il ritmo della vita normale sia sospeso e che non ci sia spazio per altro che per la malattia.
Eppure, in questo spazio-tempo così particolare, vissuto da ogni donna in modo diverso, ma con- diviso da tutte, succedono molte cose. Ci si può rendere conto di essere molto più forti di quello che si credeva, si possono rivedere le priorità della propria vita, e si inizia a scoprire il valore di cose spesso date per scontate.
È molto complesso per una donna gestire la menomazione risultante da un intervento al seno: insieme al tumore, infatti, sembra che sia stata asportata anche l’immagine di sé. La cancellazione, o comunque la minaccia, a una parte del corpo che culturalmente rappresenta la femminilità in tutte le sue accezioni (materna, erotica, simbolica) può generare un sentimento di crisi dell’identità, un senso di perdita irreparabile e di rabbia. Inoltre, la paura delle conseguenze fisiche delle terapie amplificano questa sensazione di perdita di controllo sul proprio corpo. Sono sentimenti condivisi più o meno da tutte le donne, normali reazioni a un evento forte e traumatico.

Ci si trova “costrette” a ricostruire la propria  immagine interiore. In qualche modo occorre venire a patti con queste emozioni, senza farsi, però, sopraffare dallo sconforto: è importante, infatti, che l’umore sostenga il delicato percorso di guarigione.
Le persone care, la famiglia, le amiche, le altre donne che hanno superato il tumore sono una vera e propria fonte di risorse  in questo delicatissimo momento. Chiedere aiuto ogni volta che ne si sente  il bisogno, senza alcun timore.
E’ importante sfogarti, condividere , senza temere di sembrare “debole”, è normale avere paura e scoraggiarsi. Rivolgersi  a qualcuno che ti ispiri fiducia. È utile anche che il supporto psicologico sia esteso all’intero contesto familiare. La famiglia può necessitare di una totale riorganizzazione dei ruoli e degli equilibri. Non bisogna avere paura: chiedere aiuto non significa rinunciare a una parte della propria indipendenza. Fa star meglio anche risolvere  gli antichi dissapori e le ferite emozionali. Questo può essere un buon momento per lasciarsi il passato alle spalle e sanare le relazioni.
 Molte donne si chiedono come parlare ai bambini del tumore al seno. Cosa dire dipende dalla loro età, ma è importante cercare di non dire loro bugie. Se dovessero scoprire che hai mentito, questo potrebbe incrinare la loro fiducia in te. Come gli adulti, i bambini hanno bisogno solo delle informazioni che possono gestire. Bisognerebbe dar loro l’opportunità di chiedere, ma capire quanto vogliono davvero sapere. I bambini traggono beneficio quando le abitudini di casa e la routine quotidiana vengono mantenute il più normalmente possibile.

 Se è difficile parlare dei sentimenti con gli altri, è una buona idea tenere un diario nel quale scrivere giorno per giorno quello che uno prova, per poi condividerlo o meno con gli altri.

martedì 18 marzo 2014

VIVERE IL PRESENTE N.1 I NOSTRI AMICI HANNO I FIGLI E NOI NO, CI STIAMO ALLONTANANDO…

La vita ci mette di fronte a grandi e piccoli cambiamenti; uno degli ambiti in cui ci troviamo spesso ad affrontare i conflitti derivati da questi è l’amicizia.
Quando gli amici storici iniziano ad avere dei figli le relazioni si complicano. 

Il tempo e le modalità per stare insieme non sono più le stesse. Molte volte ci si sente esclusi o per difesa si è portati a pensare che siano loro gli esclusi, che non hanno tempo e devono rinunciare a cene e serate perché presi da pannolini e orari di pappa…beh, poco importa di chi deve rinunciare e a cosa, fatto sta che non vi vedete più, non ci sono più le serate con le cene, il ballo, il pub o le uscite pomeridiane e domenicali.
Cosa fare? Innanzitutto un lavoro interiore: nel vostro “stare male” c’ è “solo” la loro mancanza o c’è un desiderio reale e non conformista (tutti si stanno formando una famiglia, come è normale che sia, e io no!) di avere dei bambini? Questo è importante da capire, perché alla mancanza non si stia unendo una sorta di gelosia, con la sua parte sana e la sua parte “malata”.
Dopo questa riflessione su quello che si sta vivendo passiamo alla parte pratica:
1.       RIUSCIRE A CAPIRE COSA REALMENTE STA ACCADENDO. Sono io che esagero? Siamo noi che ci sentiamo abbandonati o sta accadendo davvero il cambiamento. È fondamentale condividere tutto questo con il nostro partner se si è in coppia e poi con le amiche o le coppie amiche. Da come loro reagiscono al nostro “dolore” si potrà scoprire anche quali sono le loro intenzioni e se c’ è un po’ di “cattiveria” o comunque non-curanza dietro questi gesti e …beh…se ce ne fosse…è ora di scoprire nuovi amici!
2.       METTERSI IN GIOCO IN PRIMA PERSONA: visto che è come se foste pianeti diversi…avvicinateli! Se loro non possono muoversi sarete voi ad andarli a trovare, soprattutto se sono neo-genitori. Non è demoralizzante tutto questo, ma è creare un ponte per far sì che l’amicizia, dopo questo momento di “emergenza” possa continuare per tanto altro tempo.
3.       Perché RINUNCIARE? Ok, loro hanno le loro esigenze, ma noi…altre! Ciò vuol dire che molto probabilmente non c’è proprio da rinunciare a nulla…andrete da loro, vi troverete in altro modo e poi…andate a cercare persone con il vostro stesso spirito e le vostre abitudini! Non è tradimento, ma come è giusto rispettare le loro esigenze è altrettanto giusto non mettere da parte le vostre e quindi…se volete fare le 5 del mattino o semplicemente passare una serata al pub ci sono tante persone che aspettano la vostra compagnia.
Come abbiamo detto inizialmente la vita ci chiede dei cambiamenti e noi, con intelligenza e in maniera adulta, possiamo decidere i compagni di viaggio migliori a seconda dell’itinerario in cui siamo!
Non c’è deserto peggiore che una vita senza amici: l’amicizia moltiplica i beni e ripartisce i mali.
Baltasar Gracián


mercoledì 26 febbraio 2014

Aumentano i minori con genitori in separazioni o divorzio. L’aiuto dei GRUPPI DI PAROLA.


Oggi i rapidi cambiamenti sociali, culturali, economici e politici coinvolgono anche la famiglia con delle trasformazioni significative soprattutto per quanto riguarda le configurazioni, i ruoli di genere, la complessità e disparità socio-culturale ed economica. I dati ISTAT riportano una continua crescita dei tassi di separazione e di divorzio a fronte di una sostanziale diminuzione di matrimoni: nel 2013 le separazioni sono state 88.797 e i divorzi 53.806. Il 72% delle coppie separate e il 62,7% delle coppie divorziate ha avuto figli durante il matrimonio. Nel 90,3% dei casi di separazione di coppie con figli si è realizzato l’affido condiviso.
Il coinvolgimento dei minori nei percorsi di separazione e divorzio richiama l’attenzione dei professionisti, in particolare dei professionisti della salute mentale, alla possibile compromissione di aspetti personali, relazionali e sociali come conseguenza di elevati livelli di stress. La separazione della coppia genitoriale, infatti, richiede ai figli (bambini, adolescenti) elevati sforzi di adattamento.
Nelle famiglie separate i figli sono chiamati a riorganizzare le proprie vite e le relazioni con ciascun genitore, anche nella quotidianità. Nella crescita evolutiva di un minore, infatti, è importante la presenza di entrambe le figure genitoriali, figure che dovrebbero essere il più possibile positive, equilibrate e capaci di assumersi quelle responsabilità proprie del ruolo psico-educativo, fondamentale nelle diverse fasi dello sviluppo in età evolutiva.
Le capacità genitoriali dovrebbero r-esistere anche in seguito ad una separazione, capacità che riguardano il garantire ai propri figli un ambiente sereno che sia in grado di rispondere, evidenziare e riconoscere i bisogni del minore. Nelle separazioni la coppia viene meno e si disgrega, ma la genitorialità e le sue funzioni dovrebbero continuare ad esistere nell’interesse del figlio . La bigenitorialità è un aspetto centrale nel processo di separazione e divorzio. Questo compito può rendersi ancora più difficile se è presente un elevato livello di conflittualità tra la coppia genitoriale.
Costruire dei ponti relazionali nelle famiglie separate diventa importante ed è reso possibile dalla creazione di uno spazio di comprensione reciproca.
gruppi di parola sono strumenti di aiuto sia per i figli che affrontano la separazione familiare sia per i genitori che si trovano a ridefinire e ricostruire i confini relazionali e familiari.

Infatti, se da un lato il gruppo di parola è direttamente focalizzato sui figli che vivono la separazione dei genitori, dall’altro può essere considerato anche un valido aiuto per i genitori poiché permette di comprendere meglio i bisogni e i vissuti dei propri bambini. I gruppi di parola non sono gruppi di psicoterapia infantile ma piuttosto circoscrivono un percorso di condivisione e confronto tra bambini che vivono la stessa esperienza, a cui viene offerto ascolto, supporto e protezione. Il gruppo non è solo il setting ma è lo strumento.

Lo scopo centrale dei gruppi di parola è quello di sostenere e incoraggiare la comunicazione sia tra.pari (bambini che vivono la stessa situazione) sia tra figli e genitori. Con l’aiuto di “esperti” i figli hanno uno spazio e un tempo ben definiti in cui possono condividere la propria esperienza, a livello emotivo, relazionale, personale, con altri bambini che si trovano nella loro stessa situazione. Oltre a questo possono manifestare i loro dubbi, le loro perplessità e trovare delle risposte. In ogni incontro sono previsti degli “esercizi” che oltre a stimolare l’espressione emozionale e rafforzare la condivisione relazionale, 

sabato 8 febbraio 2014

IN CHE COSA CONSISTE IL TRAINING AUTOGENO E A COSA SERVE

Il Training Autogeno consente di raggiungere il totale rilassamento fisico e psichico e aiuta a ritrovare l’armonia psico-fisica attraverso una serie di esercizi da svolgere mentalmente in specifiche posizioni corporee
Che cos’è?
Per controllare le proprie reazioni fisiologiche, derivanti da particolari situazioni di conflitto psicologico, in Oriente vengono praticate diverse discipline come lo yoga e lo zen. Queste, che coinvolgono l’individuo in maniera totale, sono dei veri e propri modelli di vita sociale e spirituale.
Il Training Autogeno (T.A.), invece, è essenzialmente una tecnica di rilassamento occidentale che, se praticata correttamente e costantemente, può consentire di raggiungere un addestramento al cambiamento psicofisico, migliora il contatto con se stessi e rappresenta una risorsa dalle immense potenzialità per aiutare la mente sia a migliorare le quotidiane performances che ad alleviare disagi psicosomatici di vario tipo.

Lo schema sequenziale che il Training Autogeno prevede è composto da sei esercizi, di cui i primi due di base, e i restanti quattro complementari:
- Esercizio della pesantezza (produce il rilassamento dei muscoli)
- Esercizio del calore
 (comporta un rilassamento, e quindi una vasodilatazione, dei vasi sanguigni)
- Esercizio del cuore
 (permette un miglioramento della funzione cardiovascolare)
- Esercizio del respiro
 (produce un miglioramento della funzione respiratoria
- Esercizio del plesso solare
 (apporta un aumento del flusso sanguigno negli organi interni)
- Esercizio della fronte fresca
 (permette una leggera vasocostrizione nella regione encefalica)

Ad essi possono aggiungersi gli esercizi supplementari (volto, occhi, spalla-nuca), gli esercizi anticipatori e le formulazioni di proponimenti.
In sintesi:
Il rilassamento con il Training Autogeno permette il ritrovamento dell'armonia, della calma e dell'equilibrio psicofisico, migliorando il rendimento dell'essere umano in tutte le sue attività.
Può essere utilizzato per:
-un profondo benessere;
-gestire l'ansia;
-eliminare lo stress;
-gestire o eliminare il dolore (cefalee, emicranie...),
-eliminare l'insonnia,
-migliorare il contatto con il proprio corpo,
-gestire la relazione con il cibo,
-disturbi psicosessuali,
-per i disturbi psicosomatici (asma,nevrosi cardiache, ulcera,malattie della pelle...),

 un po' di storia....
Il T.A. trae le sue origini dagli studi sull’ipnosi di Bernheim e Charcot in Francia agli inizi del ‘900 e fu elaborato dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz intorno agli anni ’30. Dopo circa un decennio di ricerche, egli espose nel 1932 questa tecnica di autodistensione psichica e somatica, che ha il fine di ristabilire equilibri funzionali alterati, decondizionare situazioni patologiche, e trasferire dinamismi positivi negli strati più profondi della personalità. Servendosi di tecniche autoipnotiche, si apprende gradualmente una serie di sei esercizi volti a modificare il tono muscolare, la funzionalità vascolare, l’attività cardiaca e polmonare fino all’equilibrio neurovegetativo e lo stato di coscienza.
“Training” vuol dire “allenamento”, “autos” vuol dire “da sè” e “genos” significa “che si genera”, perciò l’etimologia della denominazione della tecnica permette di spiegare meglio i suoi obiettivi, tutti volti a rendere la persona che si sottopone a tale pratica in grado di produrre da se un allenamento al rilassamento, al cambiamento psicologico e al controllo di alcuni stati fisici, attraverso una crescente capacità autonoma di “autosuggestione” che inizialmente viene guidata e insegnata da un esperto.
Il fondamentale principio autogeno è proprio l’autogenicità: affinché questa si realizzi è importante che il paziente svolga gli esercizi in modo costante e autonomo; il compito del terapeuta è dunque quello di illustrare progressivamente il metodo, supervisionare il lavoro individuale del paziente e favorire l’elaborazione del vissuto che emerge durante l’apprendimento degli esercizi. Diversamente dunque dall’ipnosi, il T.A. cerca di ridurre gli effetti suggestivi e di fornire al paziente uno strumento che possa poi essere utilizzato in modo autonomo.
Attraverso una corretta acquisizione della pratica del T.A. è possibile raggiungere la capacità di ottenere dei benefici psicofisici immediati grazie alla ripetizione di “formule autogene” e l’effetto a lungo termine di cambiamento dei processi psicofisici negativi che possono essere all’origine di molti disturbi psicosomatici. Questa tecnica quindi è uno strumento di cambiamento che opera a tre livelli:
  1. livello fisiologico, favorendo un riequilibrio del Sistema Nervoso Vegetativo e del Sistema Endocrino, entrambi strettamente connessi ai vissuti emotivi;
  2. livello fisico, migliorando lo stato di benessere e di salute generale;
  3. livello psicologico, aiutando a ristrutturare le proprie reazioni negative e migliorando alcuni vissuti psicologici.
Quindi chiunque può trarre beneficio dall'uso del T.A., lo si impara una volta e lo si avrà per tutta la vita
e anche perché non ha controindicazioni ed è molto economico!